Il campo non è tutto. E la storia di Ricky Rubio ce lo insegna.

Molto (troppo) spesso si associa un nostro mito, il nostro giocatore preferito, il nostro esempio a qualcuno dotato di eternità, dotato della capacità di non provare dolore, quasi fosse una divinità al di sopra della vita. Quello che è successo nel 2020 ci ha insegnato che tutto questo non è vero.

È l’estate del 2011, Los Angeles, California. Un ragazzino di nome Ricky Rubio compra un piccolo appartamento nella Città degli Angeli. Gli piace davvero molto. È vicino alla spiaggia. Si ritaglia un piccolo spazio per allenarsi tutti i giorni, duramente. Siamo in pieno lockout, in attesa che inizi la sua prima stagione NBA. Dal Barça ai T-Wolves, dopo una stagione paurosa con un titolo ACB accompagnato da una Copa del Rey e da una Eurolega appena l’anno prima.

Rubio è la quinta scelta assoluta nel Draft 2009, ma decide di non sbarcare immediatamente oltreoceano. Due anni per prendersi la Spagna e l’Europa, e soprattutto per arrivare in NBA da giocatore maturo.


Un giorno il suo agente gli dice di partecipare ad un “pickup game”, una sorta di partitella tra amici; peccato che quegli “amici” siano gente come Kevin Garnett, Paul Pierce, Paul George, Danny Granger. Ma l’esperienza europea e con la nazionale spagnola accumulata negli anni precedenti lo rendono sicuro e gioca alla pari anche in quel contesto. Gli capita qualcosa di assurdamente lontano dalle sue più rosee aspettative. Proprio KG a fine partitella gli si avvicina e gli dice:

“Amico, lascia che te lo dica. Questo luogo, LA, è apposto, no? Ma credimi. Credimi. Se vai nel Minnesota, se dai a quella gente tutto quello che hai dentro? Credimi, ti ripagheranno con tutto quello che hanno. Credici, abbi fiducia!”

Kevin Garnett

Non se lo aspettava. Insomma, un campione NBA che dopo un partitella ti viene lì a dare un consiglio.

Arriva la prima partita della stagione. Ricky parte dalla panchina. È agitato, comprensibile. C’è la sua famiglia sugli spalti, ci sono sua mamma e suo papà. “That’s my team”. Tutto il palazzetto chiama il suo nome: “Ricky! Ricky! Ricky!”. Riesce a scorgere il viso materno tra il pubblico. Si apre un sorriso rassicurante, orgoglioso per il figlio partito da Badalona e arrivato fin lì, in NBA.

Per Ricky i suoi genitori non sono solo coloro che l’hanno generato, gli hanno donato la vita; sono un riferimento profondissimo. Il padre, durante i lunghi viaggi in macchina, suole raccontare vecchie storie sentite e risentiti del suo piccolo Ricky. In particolare, ne ama raccontare una: quando il figlio dovette scegliere tra il basket ed il calcio. Aveva dieci anni ed era tempo di decidere quale dei due sport praticare. Sua mamma gli disse: “O uno o l’altro. Non ci possiamo permettere entrambi”.

Il piccolo Ricky era un talento sportivo per eccellenza: bravo sia nell’uno che nell’altro. Scelse il calcio. D’altra parte in Spagna era lo sport più popolare e lui sentiva di avere più talento nel calciare punizioni che segnare triple. Gli dispiacque solo per suo padre, grandissimo fanatico della palla a spicchi.

Dopo solo poche settimane però quella scelta si rivelò non essere quella giusta. Mancava tantissimo quella palla arancione. Andò da sua madre per un consiglio. “Mamma, voglio tornare a giocare a basket”. La reazione di sua mamma non fu quella sperata. “Non puoi cambiare a stagione inoltrata. Abbiamo già pagato la retta per il calcio”. Si doveva però trovare un’altra soluzione.

Suo padre all’epoca lavorava in una società sportiva locale. Parlò con lo staff societario. Non era consuetudine far entrare in una squadra un ragazzo a metà stagione, ma fortunatamente un accordo venne trovato: in cambio di lavoro extra, il figlio avrebbe potuto unirsi alla squadra di basket.

“Mia madre e mio padre, la mia famiglia: è questa la mia squadra. Sono sempre stati lì. Li amo per questo.”

Ricky Rubio

Ricky non è solo. Ci sono sempre i suoi genitori, sempre.

Quella prima stagione non va per nulla bene. Record di 26-40 in Regular Season, niente Playoffs. La ricostruzione di Minnesota è in atto. A livello personale va anche peggio: rottura del legamento crociato anteriore e stiramento del collaterale contro i Lakers. Un disastro. Passa l’estate del 2012 in riabilitazione. Ma la notizia dura da digerire è un’altra.

FOTO: NBA.com

Per un breve periodo torna in Spagna, a Barcellona. Sua madre non sta bene. Dopo diversi controlli, si ritrovano in un ospedale catalano. Il medico la guarda, la parola maledetta risuona nell’aria: cancro, ai polmoni. Fortunatamente lo hanno preso in tempo. Ricky è positivo, deve esserlo, per sua mamma e per suo papà, per la sua famiglia, per la sua squadra. “We all beat it. As a family.”

Nelle due stagioni successive è distratto, non è concentrato. Nemmeno quel basket tanto agognato e preferito al calcio riesce a tranquillizzarlo. Non è una valvola di sfogo, anzi. Lo spettacolo dell’NBA non gli permette di resettarsi, di prendersi del tempo, di dedicarsi a pieno alla sua famiglia. “The show must go on”, anche se l’uomo dietro al giocatore è a pezzi.

Siamo ormai nel 2015. Minnesota tenta di ripartire nuovamente, questa volta con un rookie. È Karl-Anthony Towns alla numero uno. Ad allenarli è Flip Saunders. Ricky riceve la telefonata del coach: deve aiutare KAT ad entrare nel clima NBA. Forse Flip aveva visto che il ragazzo non era quieto e questo impegno forse avrebbe potuto aiutarlo: avere un chiaro obiettivo davanti a sé.

Anche la mamma sta migliorando. Il cancro ai polmoni è sotto controllo, almeno così dicono le innumerevoli analisi che ormai accompagnano la routine da due anni.

Arriva comunque una brutta notizia. Un giorno, mentre si sta allenando con KAT, si palesa Flip. Lo vede dimagrito. Tenta di coprire il volto con un cappello, ma si vede che ha qualcosa che non va. Non è il solito. “Ciao Flip, ti vedo bene!”. No, non lo vedeva bene. A fine allenamento i due si incontrano nell’ufficio del coach. Da vicino sembra ancora più magro; si vede che è stanco.

“Ricky, ho un linfoma di Hodgkin”

Flip Saunders

Quel giorno parlano parecchio. Ognuno racconta all’altro la propria esperienza. Ricky racconta di sua madre, di quanto siano stati difficili per lui quei due anni, di quanto sia difficile avere a che fare con la parola “cancro”, soprattutto quando affligge qualcuno che ami. Parlano molto di Ricky e poco di Flip. Lui era fatto così, non cercava le attenzioni di nessuno.

Ricky per quella stagione cambia casa. Va a vivere in appartamento nella downtown di Minneapolis. Anche questo gli piace molto. Quando la nebbia si dirada, riesce persino a vedere le rive del Mississippi, tanto caro al popolo americano. La casa ha due camere: una per sé e una per gli ospiti. I suoi genitori lo vanno a trovare dopo un lungo periodo passato in Spagna.

Pochi giorni dopo il loro arrivo, devono fare un piccolo viaggio: Mayo Clinic, Rochester. Sono lì per la mamma. Il medico che a Barcellona diede la cattiva notizia nel 2012 si era trasferito lì.

Entrano in una stanza. Il medico arriva e porta con sé una cartella clinica. Contiene gli esami di controllo. Il suo sguardo dice qualcosa. Ricky lo nota, è lo stesso sguardo di tre anni prima. Il medico è impacciato, sinceramente dispiaciuto. Il cancro è tornato, più forte e più rapido. Il colpo è molto forte.

Quella stessa notte Ricky capisce di odiare il suo nuovo appartamento. Ci trova un grande difetto: le pareti sono troppo sottili. Sente i suoi genitori piangere tutto il tempo, se non per brevi tratti di opprimente tranquillità. Anche lui non dorme. Si sente perso, totalmente. Vuole solo far star bene sua madre, ma non sa come.

Un’altra notizia devastante arriva tre giorni prima del Season Opener contro i Lakers: Flip se n’è andato. La mente di Ricky torna immediatamente a quella conversazione, torna a sua madre. Lei sta abbastanza bene, tutto sotto controllo, ma la mente umana porta sempre a pensare al peggio, anche quando non dà alcuna avvisaglia. Non riesce a darsi pace in alcun modo. “Cosa ci faccio ancora qui?”. Chiama il padre, vuole farsi dire esattamente come sta la madre.

Quella stagione è un dannato inferno. I risultati non sono continui, la perdita così improvvisa di Saunders li lascia abbastanza scombussolati. Le condizioni di sua mama non sono delle migliori. Un sali-scendi, come la sua carriera.

Arriva l’All-Star Break. Quattro giorni di pausa dalla Regular Season. Non ci pensa due volte, prende e torna in Spagna, dalla sua famiglia. Diciassette ore di viaggio per rivedere sua mamma. Ad accoglierlo sulla porta di casa è proprio lei: è una cura per la malattia rivedere il figlio a casa dopo tanto tempo. Il giorno dopo torna a Minneapolis. Quella visita ha fatto bene anche a Ricky, e non per caso i due mesi successivi vanno molto meglio, sia dal punto di vista individuale che di squadra; la franchigia chiude con un record di 29-53 con un discreto finale di stagione.

Ricky ritorna a casa. È l’ultima volta che vede sua madre. Le sue condizioni peggiorano, tanto.

Muore poche settimane dopo il suo rientro.

“Quando qualcuno che ami muore, è come se una nebbia fitta ti circondasse. Fu così per me. Mi sentivo disorientato, senza una strada.”

Ricky Rubio

Il dolore è enorme, come è naturale che sia. A volte pensa di chiamare a casa, sua madre, ma non può. Ogni tanto, consapevole dell’inutilità materiale del gesto, le manda un messaggio. Quell’azione gli fa bene, per un attimo, ma è arrabbiato. Non sopporta nemmeno più il basket. Attraversa un periodo di profonda depressione. “Quando qualcuno che ami muore, è come se una nebbia fitta ti circondasse.”

Ha bisogno di un aiuto professionale, ma torna in sé stesso, ad essere quello di prima. Si ricorda di una promessa fatta alla madre nel viaggio di ritorno dalla Mayo Clinic.

Le ho promesso che mi sarei assicurato che, qualunque cosa le fosse accaduta, avremmo aiutato molte persone nell’attraversare situazioni difficili di questo tipo”.

E vuole assolutamente mantenerla. Nel 2017 Ricky viene scambiato, va a Utah. Quell’anno scopre una cosa: è la prima volta che in NBA si possono attaccare sulle magliette pubblicità. Quella degli Utah Jazz è di “5 FOR THE FIGHT”, una fondazione benefica per la ricerca scientifica contro il cancro.

Si informa di più sugli enti benefici e sulle loro attività. Vede una grande opportunità per mantenere la sua promessa e decide di creare la sua fondazione, la “Ricky Rubio Foundation”, in onore di sua madre.

“Non mentirò, i sorrisi dei bambini negli ospedali mi fanno andare avanti. Questo è il modo in cui mi sento soddisfatto. So che questo è quello che Mama avrebbe voluto. Lei è qui con me, adesso.”

Nello Utah gioca per due stagioni, nelle quali riscopre la dolcezza della tranquillità. Il suo livello di gioco cresce, e a fine anno viene scambiato a Phoenix, dove trova una squadra costituita da un core di giovani talentuosi e di ottime speranze. Dopo l’esperienza con Donovan Mitchell, il nuovo fit con Devin Booker è per lui molto stimolante, e gioca un’ottima stagione con occupazioni da veterano (con 13 punti e 8.8 assist in oltre 31 minuti).

Nonostante qualche altra trade – tornerà a Minnesota, prima di trasferirsi a Cleveland – e un pesante infortunio, le migliori annate di Ricky Rubio in NBA sono probabilmente nella seconda metà della sua carriera. Dopo aver ritrovato sè stesso, dentro e fuori dal campo.