L’omicidio di Martin Luther King avvenne alla vigilia della sfida fra Bill Russell e Wilt Chamberlain. Lo spettacolo doveva andare avanti?

Questo contenuto è tratto da un articolo di Justin Tinsley per The Undefeated (ESPN), tradotto in italiano da Davide Corna per Around the Game.



Le notizie non viaggiavano veloci, nel 1968. La radio, i notiziari della sera e i giornali mattutini sarebbero stati ancora per decenni le fonti di informazione più rapide, prima di essere sorpassati da Internet. E il social media più efficace era ancora il passaparola.

Una grande folla, composta per la maggioranza da neri, si era radunata in un quartiere povero di Indianapolis per ascoltare un comizio di Robert F. Kennedy. Era il 4 aprile, qualche ora prima dell’inizio delle Finali di Conference NBA, e la gente era ottimista, poiché molti si aspettavano che il senatore sarebbe presto stato il secondo Kennedy ad occupare la Casa Bianca.

Era evidente che nessuno fra loro aveva ancora saputo dell’omicidio che era avvenuto quella notte, poche ore prima. L’assassino di Martin Luther King Jr. avrebbe messo in ginocchio la popolazione di colore degli Stati Uniti, e portato l’intera nazione a un importante crocevia.

I poliziotti di scorta a Kennedy sapevano cos’era successo e si rifiutarono di seguirlo in quel quartiere, temendo una reazione violenta della gente. Erano già scoppiate proteste e tumulti in varie zone del Paese. Indianapolis sarebbe potuta benissimo essere la prossima.

Il candidato dei Democratici annunciò la notizia dal retro di un furgone adibito a palco. King era morto.

Dalla folla si levò un urlo di sgomento e orrore. Per l’America nera, era il sanguinoso zenit di una nefasta decade che li aveva derubati di ogni leader che sembrava avere a cuore i loro interessi: il presidente John F. Kennedy, fratello maggiore di Robert Kennedy; i leader dei diritti civili Medgar Evers e Malcolm X; in più, gli innumerevoli uomini e donne che avevano sacrificato le proprie vite nel movimento per i diritti civili e in quello che sembrò un genocidio generazionale grazie alla Guerra del Vietnam.

King, ovviamente, era lui stesso il movimento per i diritti civili e, assieme a Muhammad Alì, era il personaggio più in vista del movimento anti-guerra. Inoltre, era il portavoce di una razza costantemente penalizzata in termini di uguaglianza sociale.

Al secondo piano del Lorraine Motel di Memphis, Tennessee, poco prima che quel proiettile “gli esplodesse in faccia”, segnando, secondo il giornalista della CBS Walter Cronkite, l’ultimo attimo di esistenza del movimento dei diritti civili, l’ultima parola di Martin Luther King fu “Ohhh!”. Qualche attimo dopo, King era a terra.

Quella sera Robert Kennedy, che sarà a sua volta vittima di un proiettile assassino solamente 63 giorni più tardi, pronunciò il discorso simbolo della sua carriera. Come farebbe qualunque saggio uomo politico, predicò la pace in un periodo di carneficine.

Rispondere con la violenza non è ciò che King avrebbe voluto – avvertì. Ma Kennedy era anche predisposto a comprendere la rabbia: gli anni ‘60 avevano derubato anche lui di un pezzo della sua anima.

“Per chi di voi è nero, ed è tentato di lasciarsi andare all’odio e alla diffidenza verso i bianchi, per l’ingiustizia di questo gesto, vi posso solo dire che io stesso posso sentire nel mio cuore quel tipo di sentimento. Qualcuno della mia famiglia è stato ucciso, e anche lui per mano di un bianco. Ma ora dobbiamo fare uno sforzo negli Stati Uniti, dobbiamo fare uno sforzo per capire, per superare queste ore difficili.”

Indianapolis restò tranquilla la sera del 4 aprile, in gran parte grazie all’umiltà e alla vulnerabilità di Kennedy. Ma Newark, Baltimore, Chicago, Boston, Detroit, Kansas City, Missouri e Washington D.C. furono molto meno pacifiche. Nel District of Columbia, la notizia fu annunciata alle 20.19 e alle 21.25, la prima finestra era già stata rotta. Ad Atlanta, il Governatore Lester Maddox rifiutò di mettere la bandiera a mezz’asta in segno di lutto per King, nativo della città; e pare avesse ordinato ai suoi agenti di polizia di “sparare ai manifestanti e impilare i loro cadaveri”, se avessero tentato di fare irruzione nel Campidoglio. Più tardi, Maddox abbassò la bandiera su ordine del governo centrale.

King aveva tenuto discorsi pubblici contro la segregazione, l’ineguaglianza nella disponibilità degli alloggi e la disparità economica. Ora se n’era andato per sempre. I cittadini diedero inizio a sommosse popolari per il fatto di aver perso ogni speranza più, che per rabbia. Per paura, più che per ira. Per disperazione, più che per ostilità. I loro appelli alla giustizia restavano inascoltati da troppo tempo. Gli Stati Uniti erano impegnati in una guerra a cui milioni di cittadini erano contrari, mentre arrancavano verso le elezioni presidenziali più importanti degli ultimi anni, e le strade erano macchiate del sangue del movimento dei diritti civili.

 

Nessuno sapeva in che direzione stava andando il Paese, inclusa l’NBA, la cui ripresa dei Playoffs era in programma per la giornata successiva.

Bill Russell, giocatore-allenatore dei Boston Celtics, restò sotto shock per l’intera serata di giovedì e tutta la giornata di venerdì, chiuso nella camera del suo hotel a Philadelphia. Non riusciva a dormire e la sua mente era piena di pensieri. Era uno degli atleti di colore più in vista fra quelli coinvolti nel movimento dei diritti civili, e per lui l’omicidio di King fu una sorta di conferma.

“Stavano venendo fuori cose di cui avevo parlato 10 anni prima, e che allora tutti avevano etichettato come le chiacchiere di un negro arrabbiato”.(Bill Russell, King of the Court: Bill Russell and the Basketball Revolution, 2010)

A nemmeno un giorno di distanza dalla morte di Martin Luther King, l’NBA doveva decidere se giocare o meno, con l’equivalente delle odierne Finali di Conference in programma per il 5 aprile.

Non si trattava del primo caso in cui una major league sportiva si trovava a prendere una decisione del genere dopo un’omicidio di pubblico interesse. Cinque anni prima, la NFL giocò poco dopo l’assassinio di John Kennedy, in una domenica passata alla storia con il nome di “Black Sunday”, con una decisione che lo stesso commissioner NFL Pete Rozelle avrebbe più tardi definito “la peggior decisione che abbia mai preso”.

Già nel 1968, l’NBA era una lega a maggioranza nera. Le sue più grandi superstar (Bill Russell, Wilt Chamberlain, Oscar Robertson, Nate Thurmond, Dave Bing, Elgin Baylor e altri) erano di colore; Jerry West era l’unica superstar bianca.

I giocatori di colore, come tutti i neri americani, erano sopraffatti dal dolore, dallo shock e dalla rabbia. King era più di un leader dei diritti civili. Il suo operato e le sue parole erano il riflesso della sua statura morale. Il suo omicidio non fu una questione solo personale. Era l’affermazione del valore delle vite dei neri. Anzi, della sua mancanza.

“Russell pensò che le persone di colore continuavano solamente a dare all’America, senza ricevere. I neri erano praticamente i più leali fra i cittadini statunitensi”, ha dichiarato Goudsouzian. “Eppure King ci venne portato via”.

Nell’ultima fase della sua vita, la sua filosofia stava cambiando. Le strategie e le filosofie avevano fratturato il movimento per i diritti civili, e il Black Power Movement stava screditando la non violenza come popolare forma di resistenza. King si concentrò sulla discriminazione economica verso persone di diverse etnie, in tutti gli Stati Uniti. Si oppose pubblicamente alla Guerra in Vietnam. Esattamente un anno primo della sua morte, il 4 aprile 1967, King parlò in modo molto simile al rifiuto di combattere da parte di Muhammad Alì:

“Stavano prendendo giovani ragazzi neri, azzoppati dalla nostra società, inviandoli a migliaia di chilometri di distanza per garantire libertà civili nel Sud-Est asiatico, quando loro stessi non avevano mai trovato queste libertà nel sud-ovest della Georgia o a East Harlem”.

King inoltre apprezzò pubblicamente la piattaforma Olympic Project for Human Rights (OPHR) di Harry Edwards. Si incontrò faccia a faccia con l’OPHR per reintegrare Alì, impedire al Sudafrica dell’apartheid di partecipare alle Olimpiadi, portare alla rimozione di Avery Brundage dal posto di presidente del Comitato Olimpico, promuovere l’assunzione di allenatori e dirigenti di colore da parte del Comitato Olimpico Statunitense, e si operò per la desegregazione del New York Athletic Club.

E così, con tutto ciò in mente, Russell aveva comunque una partita da giocare. I suoi Celtics dovevano affrontare un avversario familiare: Wilt Chamberlain e i Philadelphia 76ers.

Russell vs Chamberlain era la rivalità principe del basket, con i due giocatori che erano considerati divinità del parquet. I due avevano portato la Lega sulle proprie spalle per l’intera decade, sebbene le loro rispettive immagini pubbliche non sarebbero potute essere più diverse. Russell era un saggio sociopolitico pensieroso e provocatorio, che aveva partecipato alla Marcia su Washington e che aveva guidato la dinastia dei Celtics tramite azioni e parole; Chamberlain era un fenomeno della natura di 216 cm, inguaribile playboy che accumulava numeri considerevoli sul campo da basket ma che (fino a poco prima) non era mai riuscito a eliminare Russell e i suoi Celtics, e a rendere così del tutto concreto il suo status di campione.

L’anno precedente, però, Chamberlain e i Sixers avevano finalmente sconfitto Boston, nella cavalcata verso il titolo del ‘67. Dopo aver sconfitto i Celtics, i tifosi gridarono “Boston è morta!” e si accesero dozzine di sigari, simulando l’abitudine della leggenda dei Celtics Red Auerbach dopo una vittoria. Il record di 68-13 dei Sixers (allora il migliore della storia), assieme alla vittoria del titolo, fece guadagnare a quella squadra l’ingresso nella Hall of Fame come miglior squadra dei primi 25 anni dell’NBA.

I Sixers erano tornati la stagione seguente con la speranza di stabilire una loro mini-dinastia. Le immagini della sconfitta dei Celtics erano ancora vive nella loro memoria. Philly era la nuova Boston, e Chamberlain aveva finalmente spodestato Russell. Il loro scontro nelle Finali dell’Est del 1968 sarebbe stato una mera formalità. Finché il corso della storia americana cambiò, in quel balcone di un motel di Memphis…

Russell chiamò Chamberlain, suo amico e rivale di lunga data, nel primo pomeriggio del 5 aprile. Sebbene non fosse mai stato coinvolto nel movimento per i diritti civili, anche Chamberlain era distrutto. Nessuno dei due voleva giocare Gara 1, ma c’erano esitazioni riguardo al rinvio. La contesa d’inizio partita era a poche ore di distanza, e nessuna delle due squadre sapeva esattamente cos’avrebbe voluto fare.

L’ala dei Celtics Bailey Howell si chiedeva perché si stesse addirittura discutendo di un rinvio: “Che titolo aveva King? Perché non dovremmo giocare la partita?”, chiese, facendo infuriare molti giocatori di colore.

Per quanto riguarda i Sixers, Chamberlain e Wali Jones votarono per non giocare. Chet Walker si rifiutò di votare, definendo la situazione una squallida messinscena, considerando lo scarso rispetto della Lega verso i giocatori di colore. Si trattava di un sentimento comune.

L’Hall of Famer Oscar Robertson, che si trovava a un banchetto della University of Cincinnati, la sera del 4 aprile, ha dichiarato:

“Non credo che fosse il caso di giocare la partita, ma questa è l’NBA. Non c’è stato alcun riguardo per King. Era quasi un nemico, per molti americani. Ma fu un salvatore per molti di noi”.

Salvatore o meno, la decisione era presa. Gara 1 delle Finali di Conference si giocò, come da programma. C’erano voci in città secondo cui, se la squadra non avesse giocato, Philadelphia si sarebbe aggiunta alla lista delle città in rivolta.

Leonard Koppett raccontò Gara 1 per conto del New York Times e 14.412 tifosi riempirono il Philadelphia Spectrum, senza mostrare particolari reazioni al drammatico evento della sera precedente. Ma buona parte dei giocatori era abbattuta e sotto shock. E nonostante le performance delle squadre furono più o meno ai livelli attesi, l’immagine del corpo morente di Martin Luther King aleggiava sull’arena come uno strato di nebbia.

In modo simile a una performance live di James Brown, ironicamente quella sera Russell, Chamberlain, i Celtics e i Sixers furono cerotti temporanei su una ferita ancora aperta. Boston vinse 127-118 contro una Philadelphia particolarmente spenta. Chamberlain chiuse con 33 punti e 25 rimbalzi, ma si arrese ai 22 rimbalzi di Russell e ai 35 punti e 11 assist di John Havlicek. Grandi numeri e nessuna vittoria: la storia si stava ripetendo per Chamberlain.

Le due stelle NBA presero parte al funerale di Martin Luther King il martedì successivo, un’esperienza che diede il via a un breve coinvolgimento di Chamberlain in politica.

La Gara 2 di domenica, invece, fu effettivamente posticipata, essendo in origine programmata per quella che il Presidente Lyndon B. Johnson dichiarò giornata di lutto nazionale. Anche la Major League Baseball posticipò le prime partite della stagione, in programma quel giorno.

Mentre gli atleti piangevano con il resto della nazione, ci si aspettava anche che agissero da pacificatori in quelle comunità costrette a fare i conti con il lato peggiore del bigottismo americano.

Gli atleti coinvolti nel Negro Industrial and Economic Union (NIEU), che Jim Brown contribuì a fondare nel 1965, furono invitati a “andare nelle strade e nei ghetti e provare a contenere le agitazioni razziali”, secondo quando riportato da Associated Press l’8 aprile. John Wooten, giocatore di football nei Cleveland Browns e direttore esecutivo del NIEU, dichiarò che fra i 35 e i 40 atleti furono coinvolti nell’iniziativa, inclusi Gale Sayers dei Chicago Bears e Bill Russell.

Le nubi sull’America afroamericana, comunque, non si erano ancora dissipate all’inizio di Gara 2, il mercoledì successivo. “L’intera giornata trascorse con una sensazione di intontimento, come essere sott’acqua o in una giornata molto umida”, ha dichiarato un volontario al funerale di King a Rebecca Burns, autrice del libro “Burial for a King”, uscito nel 2011. “Sei cosciente del momento, ma non del tutto cosciente di ciò che c’è attorno a te”.

Dopo il funerale, le Finali dell’Est ripresero. Boston, dopo aver vinto Gara 1 a Philadelphia, finì per perdere le tre partite successive, con cui i Sixers si portarono in vantaggio per 3-1, riprendendo il controllo della serie. Sembravano ormai in grado di chiudere la pratica e puntare al secondo titolo consecutivo, ma Boston riuscì a imbastire un’epica rimonta, andando a vincere la serie in Game 7.

“Se non avessero vinto la prima partita in trasferta mentre Philadelphia era abbastanza scombussolata, come sarebbe andata quella serie?”, ha dichiarato Goudsouzian. “I Celtics sconfissero poi i Lakers e la leggenda di Russell divenne così indelebile. Vinse di nuovo anche nel 1969, arrivando a due titoli da allenatore-giocatore. Si tratta ovviamente di una dimensione cestistica, relativamente importante per la storia di quegli anni, ma resta qualcosa di unico di quel periodo”.

La logica suggerisce che, se i Sixers avessero affrontato Gara 1 in condizioni migliori, avrebbero probabilmente vinto in cinque o sei partite, o al massimo in sette.

E dopo aver esorcizzato il demone Boston, sarebbero arrivati al secondo anello? E in quel caso, Chamberlain sarebbe rimasto a Philadelphia, sua città natale, invece di approdare ai Lakers?

Semplicemente, non era destino.

L’omicidio di King segnò il destino del movimento per I diritti civili. King morì a 39 anni, e la sua eredità fu parzialmente realizzata con l’elezione e la rielezione dell’ex Presidente Barack Obama. Eppure, nonostante la romanticizzazione della sua vita e delle sue parole, il proiettile che ha trapassato il collo di Martin Luther King e gli avvenimenti che ne sono scaturiti hanno avuto conseguenze su ogni aspetto della società, inclusa l’NBA e una delle sue rivalità più raccontate.